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domenica 28 febbraio 2016

IL VILLAGGIO OPERAIO LEUMANN


Il complesso, realizzato tra la fine dell''800 e l'inizio del '900 è costituito da due comprensori di casette ai lati dello stabilimento tessile su una superficie di circa 60.000 metri quadrati.

Tra i numerosi villaggi operai sorti in Italia nella seconda metà del secolo scorso, Leuman di Collegno (Torino) rappresenta uno dei maggiori esempi di questo fenomeno tipicamente ottocentesco.
Sia le casette che l'ingresso dell'opificio in stile Liberty, sono facilmente riconoscibili tra il disordine architettonico di una periferia industriale degli anni '60.

L'organizzazione urbanistica, l'architettura degli edifici e soprattutto le istituzioni sociali create dall'illuminato imprenditore svizzero Napoleone Leumann, fanno del villaggio un organismo di straordinario interesse storico, culturale ed architettonico.

L'imprenditore trasferì l'azienda di famiglia, fondata dal padre Isaac, da Voghera a Torino beneficiando delle convenienti agevolazioni che offriva il capoluogo piemontese, reduce del contestato trasferimento della capitale prima a Firenze e poi a Roma. All'epoca infatti, la città di Torino concedeva terreni a prezzo politico ed agevolazioni fiscali, con l'intento di ricreare un nuovo ruolo di riferimento che compensasse la perdita della centralità, del lustro e delle importanti funzioni di una capitale.
Inoltre un'ampia offerta di manodopera specializzata a costi ridotti completò il processo di attrazione di capitali e imprenditori, anche stranieri, contribuendo a fare di Torino la nuova capitale dell'industria.
La scelta cadde sul vasto lotto di terra nelle campagne circostanti il piccolo paese di Collegno, alle porte di Torino e nel 1875 Isaac Leumann ed il figlio Napoleone decisero di installare un nuovo sio produttivo che lavorasse il cotone, a differenza del precedente stabilimento di Voghera che trattava il lino.
Fondamentale nella scelta del luogo fu anche la presenza di canali irrigui (bealera di Grugliasco) e la vicinanza di una nuova, moderna infrastruttura: la ferrovia


che correndo lungo l'asse dell'attuale corso Francia, consentiva un rapido collegamento con Torino, la vicina Rovoli ma anche con la Val di Susta e la Francia (attraverso il nuovo tunnel del Frejus aperto nel 1871.
Qundi nel 1875 l'industriale fonda il Cotonificio Leumann che diventa in breve tempo un'azienda di notevoli dimensioni e prestigio: dai duecento operai passa, in meno di un decennio, a ottocento addetti, per arrivare nel 1911 a circa 1.500.

Il macchinario era costituito da seicento telai meccanici, quattro caldaie a motore e due motori a vapore.

Ma Napoleone Leumann non fonda soltanto un'industria, crea un'area ben delimitata in cui produzione, abitazione, istituzioni sociali e previdenziali, tempo libero erano strettamente connessi tra loro e formavano un organismo funzionale e socialmente evoluto.

Il villaggio comprendeva 59 villini e case suddivisi in 120 alloggi che, in origine  ospitavano un migliaio di persone.
Attorno alle case vengono costruiti servizi necessari come la scuola elementare e l'asilo, il teatro, un ambulatorio medico, una palestra, i 
bagni uno spaccio aziendale (nel quale si poteva comprare solo utilizzando la moneta stampata per uso interno per i dipendenti del cotonificio),














un convitto per le operaie che dava alloggio a circa 250 ragazze tra i 13 e i 20 anni di età


nel quale le stesse potevano seguire corsi di economia domestica, cucina, cucito


per essere in future delle brave mogli.
Pur essendo protestante Napoleone Leuman nel 1907 commissionò all'architetto e ingegnere Pietro Fenoglio (esponente di spicco dello stile Liberty di Torino) il progetto di un edificio ecclesiastico. 
La chiesa del Villaggio Leuman dedicata a Santa Elisabetta (Elisabetta si chiamava la mamma dell'imprenditore) non è però riconducibile unicamente allo stile Liberty poiché ancora contaminato dall'eclettismo storicistico tipico di fine Ottocento. E' a pianta longitudinale con navata unica, coperta da capriate lignee e presenta ai lati due piccoli sfondati (cappelle) illuminate da aperture trifore di chiara ispirazione neo-romantica.
Le vetrate e la decorazione interna della chiesa sono di gusto Liberty e furono realizzate da un'equipe di pittori e decoratori diretti dal prof. Smeriglio da Poirino, collaboratore di Fenoglio in più occasioni.

La finestra in facciata, divisa in tre parti viene reinterpretata con un linguaggio strettamente legato all'Art Nouveau. I campanili, con chiari

riferimenti alle chiese carolinge d'oltralpe (tributo di dell'architetto alle origini di N. Leuman), sono arricchiti da decorazioni Liberty, con la parte terminale geometrizzata e decorata da croci in ferro battuto. Il rivestimento della facciata è realizzato con alternanza di mattoni a vista e fasce di litocemento.
Insomma all'interno del villaggio Leumann c'era proprio tutto e gli operai potevano vivere in case in cui pagavano un affitto inferiore a quello che avrebbero dovuto versare in case poste all'esteno e godevano di numerosi servizi che non avrebbero ricevuto abitando in altre zone.
Il benessere degli operai garantiva il buon funzionamento della fabbrica e questo rendeva il Cotonificio Leuman uno dei più produttivi dell'epoca.
Nel 1972, però, in seguito alla crisi che investì il settore tessile, l'attività produttiva del cotonificio venne interrotta e la sorte del villaggio fu seriamente compromessa da tentativi speculati. Per la salvaguardia dell'intera struttura il Comune di Collegno, con il sostegno della Regione Piemonte, lo acquistò.
Lo stabilimento continuò l'attività di tintoria e fissaggio di tessuti di cotone e lino sino al 2007 quando chiuse definitivamente.
Gli edifici del villaggio sono oggi tutti restaurati ed abitati secondo le regole dell'edilizia popolare e gestite dall'ATC.
I servizi sociali sono stati introdotti, come previsto in fase progettuale, dove erano già ospitati originariamente: sono operanti la scuola elementare, l'ufficio postale, un centro sociale per anziani, la Chiesa di Santa Elisabetta.

Se desiderare visitare il Villaggio Leuman, contattate l'Associazione Amici della Scuola Leumann .




domenica 21 febbraio 2016

ALFONS MUCHA e le atmosfere Art Nouveau - LA MOSTRA


La mostra al Palazzo Reale di Milano fino al 20 marzo 2016 presenta 150 opere in un percorso variegato che ricostruisce il culto elegante, prezioso e sensuale del periodo Art Nouveau. 
Il nucleo principale della mostra è costituito da oltre 100 opere tra affiches e pannelli decorativi di Alfonse Mucha. L'artista ceco è stato uno dei protagonisti significativi dell'Art Nouveau, promotore di un nuovo linguaggio, di un'arte visiva innovativa e potente.
Mantenendo come perno centrale la figura di A. Mucha, le opere dell'artista sono affiancate da una serie di ceramiche, mobili, ferri battuti, vetri, sculture e disegni di artisti e manifatture eropee affini a quella medesima sensibilità.
Scopo della mostra è quello di far immergere il visitatore in un'epoca ricca e sfaccettata, facendo dialogare le invenzioni di Mucha con gli ambienti e le decorazioni a lui contemporanee.
Percorso espositivo 
Le opere sono esposte seguendo un percorso suddiviso per temi stilistici e iconografici.
Ad una sala introduttiva seguono otto sezioni tematiche.
 

Si inizia dal teatro di Sarah Bernhardt, una delle più celebri attrici della storia teatrale, vera e propria diva e icona del suo tempo (era chiamata la voce d'oro, la divina) immortalata da Mucha in una serie straordinaria di poster e manifesti teatrali.
Nella seconda sezione dedicata alla vita quotidiana sono invece raccolti esempi di manifesti e realizzazioni grafiche di confezioni di prodotti che entrano abitualmente nelle case: dalle scatole Lefèvre-Utile, alle tavolette di cioccolato Idéal


                            

Il tema chiave della terza sezione è la figura femminile, sviluppato in due sale contigue


Le fasi del giorno - 1899
La sezione dedicata al giapponismo affronta il tema dell'arte esotica e orientale sulla produzione europea.
Copertina della rivista mensile
Le Japon Artistique n. 20
Vaso con pesce - Galileo Chini






Il mondo animale è invece rappresentato dalla quinta sezione, dove è raccolto un repertorio di oggetti d'arte decorativa caratterizzata dalla presenza di soggetti animali emblematici.
All'importanza dei materiali preziosi nell'immaginario Art Nouveau è dedicata la sesta sezione

Il tempo è invece protagonista della settima sezione







Chiude la mostra la sezione dedicata all'immaginario floreale, in particolare con rose, ninfee, iris e gigli, che letteralmente invadono la produzione Liberty e Art Nouveau









Alfons Maria Mucha (Ivancice, Moravia 1860 - Praga 1939) decoratore, grafico, pittore cecoslovacco.
Ai suoi inizi intendeva dedicarsi alla musica e alla recitazione teatrale. A Vienna nel 1877 lavorò come decoratore per il Theater am Ring. Un mecenate e protettore, Khuen Belassi, lo fece studiare presso l'Accademia d'Arte di Monaco. A Parigi nel 1887 frequentò l'Académie Julian e iniziò la sua attività di illustratore nei più noti giornali parigini. Nel 1898 gli fu commissionato un manifesto da Sarah Bernhard e da allora divenne noto come cartellonista, come disegnatore di gioielli, di stoffe, di abiti, come arredatore di mostre e vetrine. Nel suo studio si raccoglieva tutto il gruppo dei simbolisti di tendenza esoterica; era amico, tra l'altro, di un famoso specialista di ipnotismo e di parapsicologia Albert Rochas.
Celebre in tutto il mondo per le sue realizzazioni grafiche, per le quali si serviva spesso di modelli fotografici, nel 1904, per seguire la sua passione pittorica, lasciò Parigi per gli Stati Uniti. Dedicatosi completamente alla pittura realizzò opere simboliste e scene storiche. Tornato in patria nel 1911 realizzò una serie di dipinti dedicati all'epopea slava. Collaboratore di molte riviste, tra cui La Plume, fu all'Esposizione Universale di Parigi nel 1900 con le pitture murali nel padiglione sud-sloveno. Le sue decorazioni sono numerose in edifici pubblici e nei teatri di Berlino e di Praga.

Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau


L'Art Nouveau, movimento artistico che si diffuse in Europa e negli Stati Uniti con declinazioni diverse, tra il 1890 e il 1910, interessò particolarmente le arti applicate e l'architettura. 
In nome dell'Arte per l'Arte, definizione che le deriva dal Simbolismo e dall'Estetismo letterari, investì tutta la vita con l'intento di trasformarla secondo i canoni di un ideale che considerava l'arte esperienza totale, di carattere estetico e culturale. Fondamentali per la formazione del nuovo stile furono le idee di J. Ruskin e W. Morris, il gusto per l'arte orientale (Japonisme) e le immagini delle opere simboliste.
L'Art Nouveau, per gli obbiettivi che si poneva nell'elaborazione di un nuovo stile, può essere inserita nella più ampia corrente del modernismo in quanto intendeva superare l'eclettismo storico e progettare una nuova arte capace di riscattare lo scadimento e la degenerazione del gusto causati dal diffondersi dei processi produttivi industriali al fine di diffondere valori estetici in ogni tipo di prodotto, dalla carta da parati al gioiello, dall'illustrazione al mobilio.

Questo stile che ha tratto ispirazione dal negozio-galleria aperto da Samuel Bing nel 1895 a Parigi, assunse denominazioni differenti nei diversi paesi europei: Modern Style in Gran Bretania, Jugendstil in Germania, Modernismo e Arte Jòven in Spagna, Sezessionstil in Austria, Style sapin in Svizzera, Liberty in Italia; Art Nouveau in Francia ed in Belgio.
Sostanzialmente con l'Art Nouveau l'arte intendeva assumersi il compito di ricostruire il mondo attraverso l'estetica.
Personaggio che raggiunse fama internazionale e che espresse con vivace e raffinata freschezza le istanze Art Nouveau (sia pure contaminate da una adesione diretta al gusto Belle Epoque poiché visse molto a Parigi nella sua giovinezza) fu Alphonse Mucha (1860-1939). Egli deve in gran parte l'inizio della sua fama al fatto di aver lavorato per Sarah Bernhardt, per la quale disegnò per primo il manifesto Gismonda nel 1894 a cui ne seguirono molti altri.
Per lei progettò alcuni gioielli eseguiti dal noto gioielliere parigino Fouquet tra cui il bracciale Serpente (oro cesellato e smalto, con opali incisi, che si avvolge a doppia spirale al polso, invade il dorso della mano, dove poggia la testa, spinge la lingua formata da catenelle multiple, a serrare le dita con un avvolgimento simbolicamente espressivo)


Il cloisonnisme di Pont-Aven, l'andamento curvilineo del segno basato sulle forme della natura (piante e fiori in particolare), la decorazione lineare caratterizzata dall'architettura moresca e del disegno decorativo islamico, il trattamento delle stoffe tipico delle xilografie giapponesi, sono tutte le componenti che Mucha combina nei suoi manifesti, disegni, pannelli decorativi, illustrazioni.
Una nota particolare va all'uso, abbastanza raro per l'epoca, della fotografia in posa, delle cui linee essenziali egli si serviva come base di sviluppo per il suo disegno, il cui tema fondamentale è sempre l'immagine femminile, trasfigurata a simbolo di erotismo magico, incastonata in una cornice, spesso circolare, intricata e densa di intrecci lineari e floreali, con una vena inesauribile e ricca di motivi.
Nel 1905 Mucha pubblicò "Figures décoratives", un documento importante per lo studio del suo procedimento operativo e della sua concezione stilistica.





giovedì 18 febbraio 2016

SULLA SCENA DEL CRIMINE



L’esposizione analizza la storia della fotografia forense e mostra opere che coprono più di un secolo di storia, dai primi scatti entrati nelle aule di tribunale fino alle foto satellitari usate dalle organizzazioni per i diritti umani per denunciare l’uccisione di civili, come nel caso degli attacchi con i droni. 
Una selezione di undici casi-studio per illustrare un approccio scientifico al mezzo fotografico, volto a renderlo uno strumento nelle mani della giustizia.
La mostra prende in esame il modo in cui esperti, ricercatori e storici usano le immagini come prova nei casi di crimini o atti di violenza subiti da singoli o da gruppi e analizza in che modo, quando e da chi le immagini di crimini o di violenza sono prodotte, così come la loro capacità di essere utilizzate come prova, oltre a proporne una prospettiva critica riguardo alla loro validità giuridica.
Le immagini possono costituire una prova perché documentano, ma ci vogliono altri elementi per sostenere l'impianto accusatorio. Lo dimostra ad esempio il fatto che l'orrore dei campi di sterminio sia stato fotografato e filmato secondo regole ben precise dai soldati Alleati. Essi infatti dovevano essere fotografati accanto all'orrore  trovato durante la liberazione e la veridicità delle immagini era sostenuta dal fatto che ogni soldato poteva essere riconosciuto e la documentazione risultava credibile e quindi utilizzabile contro gli imputati del processo di Norimberga (sezione "Il processo di Norimberga -  mettere i nazisti di fronte alle immagini dei loro crimini"). 

Le Immagini presentate sono forti, molto diverse tra loro, ma accomunate dalla terribile violenza che documentano.
L'esposizione ha inizio con la Fotografia  metrica per scene del crimine - 1903 del criminologo francese Alphonse Bertillon (1853-1914) il quale stabilì un protocollo scientifico per la rappresentazione delle scene del crimine anticipandone l'attuale ricostruzione in 3D.

Nella stessa sala Il metodo investigativo di Rodolphe Reiss (1875 -1929) discepolo svizzero-tedesco di Bertillon. Passando nella sala successiva troviamo  la presentazione de L'uomo della Sindone - la prima fotografia criminale che mostra le fotografie dell'uomo sindonico scattate dal francese Giuseppe Enrie (1886-1961) durante l'ostensione del 1931 a trentatré anni di distanza da quelle ottenute dall'avvocato e fotografo dilettante Secondo Pia nel 1898 
( immagini che avevano suscitato tanto scalpore ed emozione in tutto il mondo, rivelando per la prima volta con sorprendente chiarezza, "in positivo" nella latra negativa, l'immagine del corpo di un uomo il cui volto corrispondeva straordinariamente a quello tradizionale dell'iconografia di Gesù Cristo, flagellato e crocifisso)

Lo scoppio della Prima guerra mondiale portò una ad una rottura radicale con il passato, rottura resa possibile da due innovazioni del XIX secolo: l'aeroplano e la fotografia.
Già il 2 agosto 1914 osservatori in volo immortalarono i risultati delle loro missioni con macchine fotografiche personali, convincendo il generale Joffre della necessità di unità specializzate per le ricognizioni aeree. In questo modo era possibile la conoscenza dettagliata del territorio e l' osservazione delle difese nemiche.
Nelle fotografie britanniche in mostra nella sezione "La guerra vista dall'alto" possiamo vedere il  prima e il dopo dei bombardamenti effettuati in alcuni territori francesi.











La sezione "Il grande terrore nell'URSS - ritratti delle vittime di un crimine di Stato 1937-38"  è documentato il crimine contro l'umanità commesso in Russia vent'anni dopo la Rivoluzione d'ottobre: il regime sovietico tra l'agosto 1937 e il novembre 1938 circa 75.000 cittadini sovietici furono condannati a morte e fucilati ma prima di ricevere la propria condanna a morte ogni persona veniva fotografata di fronte e di profilo contro fondali neutri, in conformità con le norme per le fotografie di identità stilate da A. Bertillon. Nonostante gli sforzi del sistema stalinista e dei suoi esecutori di nasconderle, le foto del Grande Terrore sono tornate alla luce diventando un atto di resistenza  che ripristina la memora di persone che si valeva far scomparire senza lasciare traccia.




Nel 1984 la polizia brasiliana scoprì nei sobborghi di San Paolo un corpo che poteva appartenere a Josef Mengele, il macellaio di Aschwitz,


a cui i servizi segreti israeliani davano la caccia fin dalla fine della guerra. I migliori esperti forensi del mondo  furono incaricati di esaminare ed identificare lo scheletro. Ne "Il cranio di Mengele - il processo alle ossa" si osserva il lavoro del patologo e fotografo tedesco, Richard Helmer, ed in particolare dell'utilizzo della tecnica videografica di cui era pioniere chiamata sovrapposizione volto-cranio: l'immagine video di una fotografia viene posta sopra l'immagine video del cranio per determinare se appartengono alla stessa persona




sul monitor Helmer poteva controllare la sovrapposizione dividendo il volto a metà, cancellando dallo schermo il viso fotografato per rilevare il cranio e viceversa  la corrispondenza risultò perfetta. Il metodo fu utilizzato dal momento che non erano a disposizione i due elementi solitamente utili al riconoscimento del corpo: la radiografia dentaria o il DNA di Mengele.
Altre sezioni sono "Il libro della distruzione di Gaza- una verifica della distruzione di edifici dopo gli attacchi degli occupanti israeliani"


"Un attacco di droni in Miranshah" con un video che spiega come , partendo da un edificio semi distrutto si riesca a capire come è avvenuto l'attacco e se sono state colpiti esseri umani.
" La distuzione di Koreme, Kurdistan Iracheno" con fotografie della scoperta di fosse comuni in cui erano gettati gli abitanti di un territorio che si opponevano alla conquista della loro terra


Infine "Rivendicazioni territoriali dei beduini nel deserto del Negev"  racconta  la difficoltà dei beduini  di tornare nella loro terra dopo essere stati espulsi dai militari israeliani tra il 1948 e il 1953. Pur essendoci foto scattate alla fine della Seconda guerra mondiale che testimoniano la presenza storica dei beduini nel sito rivendicato,  lo Stato nega loro il diritto di rientro nei loro territori, sostenendo che le immagini aeree scattate dalla Royal Air Force per mappare la Palestina tra il dicembre 1944 e il maggio 1945, non mostrano tracce di insediamento permanente.
Una mostra intensa e con più livelli di lettura, che parla dei nostri lati bui e del nostro disperato bisogno di certezze, che indaga sulla fotografia e del suo ruolo di bloccare la realtà delle immagini, di fissare la scena del crimine prima che altri passi la inquinino, di diventare strumento per sviluppare ricerche, ripensamenti, correzioni, aggiustamenti.

La mostra è visitabile presso CAMERA Centro Italiano per la Fotografia, via Delle Rosine 18 Torino in via fino al 1 maggio 2016.







lunedì 8 febbraio 2016

Donne nell'arte: VANESSA BEECROFT


Vanessa Beecroft è nata a Genova nel 1969 ma vive e lavora in America.
Ha studiato pittura presso l'Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova e ha poi proseguito i suoi studi in scenografia presso l'Accademia di belle arti di Brera a Milano.
Le sue performance-sculture-quadri viventi, intitolate (come tutti i suoi lavori) con un codice le cui prime lettere sono le iniziali del nome e del cognome, sono ritratti di gruppi di gruppo o individuali tridimensionali, con ragazze e donne in carne ed ossa. Queste occupano un determinato spazio per un determinato tempo;vestite succintamente dall'artista stessa, oppure nude, indossano parrucche e non entrano mai in contatto con il pubblico.
Ne risulta un'atmosfera fredda, misteriosa, le ragazze si muovono appena e sembrano in attesa di qualcosa. L'artista anglo-italiana imposta la sua ricerca sul tema del corpo, è interessata al rapporto tra le figure umane come donne vere e la loro funzione di opera d'arte o immagine, i suoi lavori sono difficili da classificare perché potrebbero essere considerate performance o "sculture vive" 

VB 62, 2008
come quelle degli inglesi Gilbert & George oppure una forma moderna di ritratto, o ancora di nature morte dalla valenza psicologica composte con oggetti vivi.
In una delle sue prime esposizioni del 1994, la Beecroft presentò 30 ragazze in uno show-room al quale il pubblico non aveva accesso. L'evento era visibile solo attraverso una finestra rettangolare che dava la sensazione di sbirciare da uno spioncino. Le ragazze avevano tutte una corporatura simile, non atletica e indossavano scarpe e gambaletti neri , biancheria intima grigia e magliette nere o grigie. L'abbigliamento uniforme produceva nello spazio una composizione visiva di grande effetto ed era completato da parrucche gialle, alcune con le trecce. Alcune ragazze erano sedute, altre erano appoggiate alle pareti, altre ancora camminavano avanti e indietro lentamente. Nessuna di loro sembrava aspettarsi che succedesse qualcosa, si trattava di una scena svolta in un noioso lasso di tempo. Il titolo dell'opera era A Blonde Dream, l'evento era concepito per avere luogo in una galleria tedesca ed alludeva esplicitamente al cliché dell "bellezza ariana" diffuso durante il Terzo Reich.
Sempre nel 1994 negli spazi e P.S.1 Contemporary Art Center di New York realizza un altro lavoro che esponeva il corpo femminile agli occhi del visitatore: 
VB 08, 1994
il gruppo delle modelle con la parrucca magenta era tenuto unito in un angolo del P.S.1 da alcune coperte militari blu cucite insieme, il titolo che tradotto letteralmente significa Lotte combatte contro le montagne, evocava nell'azione limitata delle modelle la frustrazione e le difficoltà di superare i limiti fisicamente e psicologicamente.

VB 16, 1996
Dalle performance dei primi anni novanta, con sparuti gruppi di ragazze, è avvenuto un significativo excursus. Le prime e più fragili presenze infatti, individuate per i piccoli gruppi in cui le ragazze spesso indossavano vistose e colorate parrucche o impermeabili, col passare degli anni si sono sviluppate in compagini articolate di alte e statuarie modelle inserite in vasti e raffinati tableaux vivants. Le performance, quasi completamente statiche, poi immortalate in scatti fotografici o discrete registrazioni video, esibiscono spesso un teatro enigmatico della nuda presenza: le modelle perdono la loro umanità e sensualità e diventano simili a manichini o a statue di marmo che non guardano negli occhi lo spettatore
VB48 721 DR
Pur facendo ricorso alle potenzialità di una sorta di teatralità sospesa, di pura presenza, l'artista ha sempre posto l'attenzione su una serie di proiezioni e di fantasie sull'idea di femminilità, soprattutto grazie ad un costante processo di eliminazione e di concentrazione incentrate su dettagli essenziali.
La produzione dell'artista include disegni di notevole sensibilità, come le enigmatiche teste femminili tra le quali si impone la folta criniera di capelli rossi di Lotte, 1994 .
Vanessa Beecroft ha impiegato anche il libro come mezzo espressivo: all'inizio della sua carriera cominciò ad annotare gli aspetti salienti della sua attività artistica in una sorta di diario intitolato Despair 1983-93, dove descrisse le sue abitudini alimentari, confessò i suoi sensi di colpa e svelò dettagli intimi riguardanti il rapporto con i genitori. Questo autoritratto letterario fu presentato a Milano in occasione della prima esposizione dell'artista.

Senza titolo Biennale 2015
Al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2015 ha presentato un'opera non fotografica, un lavoro con cui la Beecroft recupera, in chiave concettuale, il linguaggio classico della scultura, per condurre verso i territori di una statutaria senza tempo. Come in Étant donnés di Marcel Duchamp, la scena è percepibile solo a distanza attraverso una fessura incisa in due pareti di marmo... Se guardiamo scorgiamo un giardino di pietra che ci rimanda alle avanguardie degli inizi del XX secolo o alle antiche rovine.


"Non si muove nessuno, non succede nulla; non c'è nessuno che dia inizio a una cosa qualsiasi, nulla che sia condotto a termine."


VB52.168.NT 2003